Anche sul niente, due parole si possono dire

La settima asserzione del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein afferma:

Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere.

Sembrerebbe un concetto così evidente da non dover aggiungere altro. E come si potrebbe parlare di ciò che non si conosce? Beh, almeno in due modi: da un lato, come fece Theodor Adorno, accettando questo concetto come la sfida che muove la filosofia; perché è propria del pensiero razionale la contraddizione costituita dal dover indagare ciò che non si conosce. Dall'altro, e in questo la fisica moderna ha lasciato al palo la filosofia speculativa, ottenendo per via teorica (e confermandolo poi, recentissimamente, tramite esperimenti fisici) risultati verificabili proprio attorno... all'ignoto. Si tratta di un cammino che è prima spirituale (se non si ha paura si smarcare il termine dal dominio delle religioni) e cognitivo che meramente tecnico-scientifico, di cui nel presente articolo ripercorrerò rapidamente le tappe.

 

Il Paradosso EPR

Ripartiamo dall'entanglement, in particolare ripartiamo da dove eravamo arrivati nell'articolo precedente. La formulazione del concetto di entanglement, ha suscitato, al suo apparire nei primi decenni del XX secolo, non poco scalpore nella comunità scientifica. Va anche ricordato che erano gli anni in cui l'universo stesso ci era appena "scappato di mano", nel senso che l'estremo limite dell'universo conosciuto, fino ai primi del 900, era stato la nostra galassia. Sarà solo a partire dalle osservazioni di Edwin Hubble fatte fra il 1923 e il 1924 che si avrà la prima attestazione tangibile che la nostra galassia è una delle tante, una dei miliardi di galassie esistenti... Così, non solo l'universo sfuggiva alla nostra portata per così dire: sopra la nostra testa. Ma con questo concetto astruso delle relazioni incomprensibili e immediate fra le particelle, rischiava seriamente di sfuggirci di mano anche da sotto il naso.

Come c'era da attendersi, i mal di pancia fra i fisici esplosero in forma epidemica, al primo apparire di questa eresia. Fra i primi ad esserne contagiati ci fu lo stesso Einstein che, con Podolsky e Rosen, formulò il Paradosso EPR (pubblicato nel 1935 e chiamato così dalle loro iniziali). Come a volte accade ai paradossi che, nati per confutare qualcosa, tendono a volte, se chi li postula è abbastanza rigoroso, a trasformarsi in qualcos'altro, a diventare una leva imprevista per scardinare il ragionamento, ma in un altro punto, il Paradosso EPR fece la stessa fine. Del resto, dalle firme di questo paradosso c'era da aspettarsi un certo rigore...

Che cosa afferma il Paradosso EPR? In poche parole dice:

La teoria quantistica è incompatibile con questi tre assunti: oggettivismo realistico, principio di località e completezza. Almeno uno dei tre non deve valere.

Vediamo di capirci qualcosa in più (e mi perdoni chi ne sa davvero di più per le semplificazioni che introdurrò nel discorso).

 

Oggettivismo realistico. Per i fini del Paradosso EPR questo concetto indica che ci deve essere perfetta coincidenza fra quantità fisiche misurabili ed elementi fisici di realtà. Senza questa coincidenza non esisterebbe (forzando un po' le cose) alcuna possibile conoscenza dell'universo. Almeno: nessuna utile a qualche previsione affidabile. In effetti non è molto dissimile dall'identità del logos parmenideo fra essere e essere conoscibile. Ma a un livello di pura "condizione di ingaggio" non di "risultante di una teoria filosofica". In modo molto intuitivo postulare questo concetto è una condizione di minima per poter immaginare di poter mai misurare una qualsiasi parte della realtà. Può anche essere espressa come: "L'universo deve esistere, un attimo prima che lo si misuri, in modo indipendente dal fatto che l'atto di misura abbia poi effettivamente luogo." Si vede chiaramente che chiedere questo, per quanto possa essere un chiedere tutto, non è poi chiedere molto...

 

Principio di località. Anche questo principio stupisce per la sua apparente ovvietà (mai si sarà troppo allertati sui rischi che corre ogni ragionamento nel dare per scontati i propri assunti). Il principio afferma infatti una condizione sempre verificata nell'universo macroscopico in cui viviamo e che ha conformato la nostra stessa idea dell'universo. Esistono molte formulazioni del principio; ne do due:

  1. Perché due processi fisici possano avere effetti immediati l'uno sull'altro, occorre che non siano separati nello spazio;

  2. Le informazioni, e quindi il legame di causa-effetto, possono viaggiare solo a una velocità inferiore a quella della luce.

Non è proprio evidente che stiamo dicendo la stessa cosa; ma, di fatto, parlare di "Propagazione immediata dell'effetto solo per oggetti non separati" e parlare di limite alla propagazione della causa-effetto costituito da una velocità limite (in particolare quella della luce: ma potrebbe trattarsi di una qualsiasi velocità, purché finita) sono due asserzioni equivalenti.

 

Completezza. Riguardo la completezza la descrizione è ancora più semplice: una teoria fisica della realtà è completa se può spiegare tutti i fenomeni rilevabili, limitatamente al suo campo di applicazione. Ad esempio: se volessi misurare l'attrazione di due corpi e considerassi solo la gravitazione newtoniana potrei ottenere risultati che (per quanto sperimentalmente riproducibili) sarebbero particolarmente strani e inattesi; ad esempio, se utilizzassi sfere metalliche e magnetiche otterrei risultati non in accordo con la pura teoria gravitazionale. L'esempio serve solo a indicare: per noi sono noti gli effetti gravitazionali e gli effetti dell'elettromagnetismo. Ma fino a quando l'elettromagnetismo non era altrettanto noto, c'erano comunque aspetti che rendevano la teoria gravitazionale non sufficiente a spiegare il moto dei corpi, almeno in determinate circostanze. Ma allora, si chiesero "E.P.R.", non potrebbe allo stesso modo la teoria quantistica non essere completa? Non potrebbe essere che la sua formulazione trascuri parametri invece necessari a descrivere completamente i fenomeni fisici?

 

Ipotesi di Einstein, Podolsky e Rosen: «Abbandoniamo la completezza!»

Erano gli anni in cui i successi di Gödel (Teoremi di incompletezza, 1931) avrebbero probabilmente fatto puntare qualche pinta di birra sulla possibilità di dover abbandonare la completezza. Di fatto il matematico austriaco aveva appena dimostrato che qualsiasi teoria sufficientemente espressiva da includere l'aritmetica, doveva contenere espressioni indecidibili. Quindi l'idea di una teoria che non riuscisse ad abbracciare tutto intero il suo specifico ambito, era già stata sdoganata; addirittura questo era stato dimostrato per un dominio totalmente astratto come "Qualsiasi teoria [con certe condizioni]"; perché dunque non ipotizzare che quanto dimostrato in astratto potesse anche valere per la teoria (fisica) quantistica?

Einstein & Soci arrivarono al dunque della loro tesi già con il titolo: "La descrizione quantistica della realtà fisica può ritenersi completa?" E puntarono proprio a dimostrare, tramite il loro Paradosso (la cui correttezza e validità a oggi nessuno contesta) che la teoria quantistica dovesse essere incompleta (conseguenza oggi non più accettata).

Quindi, nonostante i bookmaker avrebbe probabilmente accettato la posta, la scommessa, vista col giudizio di oggi, sarebbe stata persa.

 

Ci è già capitata una puntata sbagliata: le geometrie non euclidee

Prima di arrivare a capire chi e come potesse vincere la scommessa, permettetemi una breve digressione riguardante un caso analogo nella storia della Scienza, in cui un ragionamento corretto ha avuto conseguenze non corrette a causa di assunzioni troppo impegnative. Mi riferisco alla geometria Euclidea, cioè quella branca della matematica costituita soltanto dallo sforzarsi a trovare tautologie equivalenti a queste 5 asserzioni:

  1. Tra due punti qualsiasi è possibile tracciare una ed una sola retta;
  2. Si può prolungare un segmento oltre i due punti indefinitamente;
  3. Dato un punto e una lunghezza, è possibile descrivere un cerchio;
  4. Tutti gli angoli retti sono congruenti tra loro;
  5. Se una retta che taglia altre due rette determina dallo stesso lato angoli interni minori di due angoli retti, prolungando le due rette, esse si incontreranno dalla parte dove i due angoli sono minori di due retti.

A partire dai tempi più antichi i matematici hanno cominciato a chiedersi: "Ma non sarà che il quinto postulato non è indipendente dai primi 4? Anzi, non sarà che è possibile dimostrarlo proprio a partire dai primi 4?"

Vari tentativi furono fatti per questa dimostrazione. Non riuscendo a trovare dimostrazioni costruttive, si fece ricorso al procedimento per assurdo, sicuramente molto potente, ma altrettanto pericoloso per il suo utilizzo implicito del contesto di riferimento.Ma ciò che ogni volta si riuscì ad ottenere, furono considerazioni alternative alla geometria euclidea, non in contraddizione con questa. E ogni volta che qualcuno affermò: "Se non valesse il quinto postulato, allora avremmo che ..." di fatto non ottenne un assurdo, ma un mattone di una geometria alternativa a quella euclidea. E se nella geometria di Euclide due rette parallele non si incontrano, questa condizione viene rimossa nelle geometrie non euclidee.

Il che riporta alla natura stessa del paradosso EPR. Vediamo di esplicitare il parallelismo:

Assiomi EuclideParadosso EPR
Ci si proponeva di dimostrareIl quindi postulato può essere dimostrato a partire dai primi quattroLa teoria quantistica è incompleta ed esistono quindi variabili "nascoste", cioè non descritte dalla quantistica
Procedimento usatoAssurdoAssurdo
Assunti dichiarati «irrinunciabili»Primi 4 assiomi e "senso comune"Oggettivismo realista e Principio di Località
Visione modernaI 5 assiomi sono indipendenti; varianti del 5° assioma portano e geometrie diverse da quella euclideaIl principio di Località può essere abbandonato

 

Disuguaglianza di Bell

Eccoci dunque al punto cruciale di questo articolo: come si può affermare che le variabili nascoste non esistono se, per loro stessa natura, le variabili nascoste sono quello che manca al nostro ragionamento per essere completo? La domanda sembra una speculazione filosofica, quasi un sofisma retorico. In realtà, a mio modo di vedere, quasi imprevedibilmente, anche su enti di cui si predica soltanto un vago "devono esistere altre variabili", qualcosa può essere definito ed è questa una delle conquiste intellettuali più brillanti della quantistica, tale da ribaltare l'affermazione iniziale di Wittgenstein.

Mi spiego meglio: non sappiamo quante e quali possano essere queste variabili; non sappiamo che unità di misura possano definirle; non sappiamo se riguardano il tempo, lo spazio, la materia... Eppure di questi enti che devono esistere solo... per eccepire a qualcos'altro, eppure anche su questi concetti il pensiero razionale si è riuscito a spingere fino a fare affermazioni verificabili.

Per via matematica, il fisico teorico John Bell, nel 1964 dimostrò che esiste una differenza statisticamente misurabile fra l'effetto che può essere indotto dall'entanglement come definito dalla teoria quantistica, rispetto alle variabili nascoste, qualsiasi cosa siano. In particolare l'effetto dell'entanglement nelle rilevazioni delle particelle è in qualche modo "maggiore" rispetto a una correlazione di particelle che si basi su variabili nascoste. Non solo: ma questo spartiacque è stato fissato da Bell attraverso una disuguaglianza, ricavata per via matematica, che può essere considerata un elemento attorno a cui organizzare una sperimentazione scientifica.

Ed è principalmente a causa di questa disuguaglianza, non per il trovare più simpatico Bohr di Einstein, che gli scienziati hanno dovuto abbandonare l'ipotesi delle variabili nascoste (o quantomeno ritenerla meno probabile). E abbandonare quindi la concezione che la quantistica fosse incompleta. E accettare infine lo scandalo di dover abbandonare il Principio di Località, di cui tutto si dirà, meno che sia facilmente digeribile.