Beati i poveri di spirito - Incipit

Il romanzo

Questo è l'incipit del romanzo: "Beati i poveri di spirito", pubblicato da Iomeloleggo Editore. È il primo dei trentaquattro paragrafi in cui è diviso il libro. È mattina presto. Non così presto che gli uomini non siano già andati in stalla, mentre ancora era buio, a mungere e a rigovernare il bestiame. Diciamo che è piuttosto la seconda mattina, quella che comincia sul fare del giorno quando si torna in casa per la colazione.

Incipit

A tavola non ci si guardava mai in faccia. Si mangiava in silenzio. Ci si teneva le parole in bocca, masticandole insieme al pane secco. Lo sguardo vagava attorno leggero, senza insistere troppo nel fissarsi in un punto preciso. Tutt’al più ci si spiava sui vestiti, sulle maniche delle camicie di flanella. I ragazzi conoscevano a memoria il nodo che chiudeva il grembiule della madre. Lo rivedevano in sogno come il ragno che ogni notte, dallo stesso angolo fra le travi del soffitto, spiava il loro sonno. Ma a tirar lo sguardo più su, fino al collo, fino al mento, fino al fazzoletto che le raccoglieva i capelli si sarebbe passati per indiscreti, per invadenti. Dritto negli occhi non guardava mai nessuno.

Celestino era stato il primo a mettersi a tavola per la colazione, l’ultimo a servirsi. Sembrava concentrato soltanto nel non fare rumore col cucchiaio di legno. Era il più giovane dei tre fratelli, quello che nelle fiabe sarebbe passato per sciocco ma che, alla lunga, avrebbe finito per spuntarla. Spesso sua madre, osservandolo mentre era distratto, si chiedeva se fosse vero, se, al di là delle sue maniere sfrontate e del suo carattere difficile, ci fosse davvero ad attenderlo un destino fortunato.

Mentre masticava un pezzo di pane, Celestino si accorse di conoscere tutto delle mani del padre. Anche chiudendo gli occhi avrebbe saputo immaginarne la forma esatta, la forza secca delle dita, la curva delle cicatrici. Ma la faccia no, quella non avrebbe saputo figurarsela con altrettanta precisione. Il volto di suo padre era un territorio straniero in cui di rado gli capitava di avventurarsi. Perché Celestino, a quindici anni, non era più un bambino. E fissare suo padre dritto negli occhi non era proprio questione. Non era solo timore per lo sguardo accigliato che avrebbe incontrato e neppure prudenza. Piuttosto era pudore. Gli sarebbe sembrato di mettergli fretta, di respirargli troppo addosso. O di fargli una domanda diretta, di quelle che scaldano le orecchie e invece di risposte ottengono larghe macchie di silenzio, simili al segno scuro di acqua rovesciata sul pavimento di terra battuta.

Accanto alle mani del padre era appoggiata una roncola con la lama rotta. Sembrava un convitato silenzioso tanto era il rispetto e gli sguardi che riusciva ad attirare. Non era stata gettata sul tavolo: era stata sistemata con cura, il manico parallelo al cucchiaio. Forse i fratelli di Celestino sarebbero rimasti più a lungo per vedere cosa ne sarebbe stato ma il fatto che il padre non avesse ancora alzato gli occhi dalla scodella, che non avesse detto nemmeno una parola, li convinse a lasciar perdere. La madre mangiava alle loro spalle, in piedi. Anche lei sembrava intimidita dalla roncola, tanto che i suoi movimenti attorno al tavolo erano complicati di continui ripensamenti e di sospiri.

Quando i fratelli uscirono di casa e Celestino rimase solo con i genitori, la sua posizione si fece ancora più scomoda. Tanto che, in poco tempo, si spazientì e provò ad affrettare la conclusione:

«Guardate che non l’ho usata da stupido la roncola. È che si è rotta.»

Il padre alzò appena un sopracciglio, come se non fosse ben certo che gli avessero rivolto la parola. Non sembrava irritato; era incredulo, piuttosto.

«Vi assicuro che l’ho usata come si deve. Ma era vecchia… Avrò fatto troppa forza.»

Celestino avrebbe continuato a lungo. Per un attimo gli era sembrato che, se solo si fosse spiegato meglio, tutto si sarebbe potuto sistemare.

«E la stavo anche usando per bene…»

«Cos’è che mi vuoi dire?» sbottò il padre, interrompendosi dal masticare. «Mi vuoi dire che se io, adesso, credo che non è colpa tua, allora la roncola si aggiusta? Mi vuoi dire che, se ti credo, al mercato me ne daranno una nuova per niente? È questo che mi vuoi dire?»

Guglielmo scosse la testa minaccioso verso la moglie, come a chiederle chi mai potesse aver messo in testa al ragazzo certe sciocchezze. Dava per scontato che fosse stata lei. Del resto non ricordava più quand’era stata l’ultima volta che lui gli aveva parlato. Ma non disse nulla, ricominciò soltanto a spezzare il pane secco con gesti lenti e misurati. Riduceva ogni pezzo in parti più piccole con la stessa meticolosità con cui, dopo aver dato una breve occhiata al prato, avrebbe cominciato a falciarlo: senza lasciare nulla indietro, senza mai tornare sui propri passi.

La madre ritirò le scodelle e cominciò a spazzare il pavimento con la scopa. Le venne da dire qualcosa ma la voce le uscì più roca del solito e lasciò perdere. Fu Celestino ad approfittare del silenzio per farsi sentire di nuovo:

«Dicevate che il prato ai piedi dell’arginello andava tagliato. Se volete stamattina ci posso andare…»

Ecco fatto: si era liberato di un peso. Stare ancora a fronteggiare tutto quel grigio silenzio non era una cosa per lui. Suo padre era un osso duro. Continuava a masticare con calma, come se non si fossero detti nulla, come se stesse ancora meditando alla ricerca di una soluzione. Così il figlio aveva buttato lì le sue parole e si era ritirato in bell’ordine in un angolo ad aspettare. E finalmente aveva parlato, così che una risposta gli era ormai dovuta, come al giorno è dovuta la notte perché il mondo si riposi, come all’alba è dovuto il sole, ad asciugare le campagne dal freddo e dall’umido che hanno patito.

Guglielmo si alzò da tavola. Aveva perso già troppo tempo in quella lunga colazione. Il proposito di dare una lavata di capo al figlio si era annacquato in poche e vaghe parole senza che gli fosse riuscito di farne qualcosa di più concreto. E questo lo metteva di cattivo umore.

La moglie si affrettò a prendere scodella e cucchiaio e a lavarli in un catino. Celestino fece un gesto in sua direzione ma poi si trattenne, rimanendo immobile. Mise le mani sul tavolo, le tolse, si accorse di non riuscire più a trovare la posizione giusta.

«Ma quand’è che comincerai?» gli chiese infine suo padre, avviandosi verso la porta.

«Quando mi dite, anche adesso…»

«No. Io dico quand’è che lavorerai sul serio invece di perdere tempo? Non sei più un bambino.»

«Ma non è perdere tempo. Io…»

«Io niente. Per mezzogiorno vedi di aver finito.»

Avrebbe anche voluto aggiungere che era l’ultima volta. Ma di ultime volte Celestino faceva collezione da tempo. E di pazienze portate al limite estremo. Forse i fratelli, dopo tutto, avevano ragione a impermalosirsene. Per quale ragione con loro era tutto più facile mentre col minore non c’era verso che le cose andassero via semplici? Si sentivano creditori di una pazienza e di un tempo che chissà se avrebbero mai potuto riscuotere.

Celestino tenne lo sguardo basso. Solo gli angoli della bocca cercavano di risollevarsi in un sorriso precipitoso e inopportuno. Appena il padre fu uscito e la porta si richiuse, non riuscì a trattenere un sospiro di sollievo.

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