Per una volta

Dopo infinite insistenze ero finalmente riuscito a convincere mia moglie ad andare alla casa sul Lago. Saremmo rimasti soltanto per il week-end. Avremmo portato i bambini a sentire i rumori del bosco, il vento che agitava i rami degli alberi, le silenziose parole della montagna, quando scende la sera e il bosco si anima di mille segreti brulichii.

A lei quel posto non era mai piaciuto. Mette i brividi, diceva. Di certo non amava dover rassettare una vecchia casa che restava per mesi vuota. E dar la caccia alle ragnatele, ai gusci vuoti delle chiocciole, alle mosche morte sotto le finestre.

Per me non era mai una gran fatica. Perché saremmo stati ripagati dal poter mostrare ai bambini le tane di foglie degli scoiattoli. E i cumuli di ghiande ai piedi degli alberi. E l’uccellino che cantava, di prima mattina, sulla statua antica di fronte a casa, incrostata di muschi e di tristezza. E la pace del Lago, là sotto, con i monti che si specchiavano nell’acqua.

Il giorno in cui finalmente ci mettemmo in viaggio, era il giorno peggiore che potessimo immaginare. Era prevista pioggia. Sul Lago addirittura si attendeva un temporale. Ma non volevo rinunciare a quella concessione che chissà quando sarebbe mai stata rinnovata.

“Per una volta avresti potuto essere ragionevole,” disse mia moglie mentre spegnevo la macchina nella piazza del paesino. La strada che portava alla vecchia casa si poteva percorrere soltanto a piedi. Anche se era ancora pomeriggio, le nuvole oscuravano il cielo come se il buio della sera stesse già calando.

Appena scesi dalla macchina, i bambini non ne volevano sapere di camminare. Tanto meno verso il bosco oscuro in cui vedevano la strada inoltrarsi. E scomparire. Ma non potevamo aspettare oltre: ogni minuto di esitazione avrebbe aumentato il pericolo di bagnarci sotto l’acquazzone.

“Per una volta, potresti prenderla in braccio, la bambina. D’accordo i princìpi, ma così non ne usciamo.”

La bambina che non se lo fece ripetere due volte prima di fermarsi a braccia alzate. Non mi sembrava il caso di impuntarmi, così, lasciando per un attimo a terra la valigia, la issai sopra le spalle, preparandomi alla gelosia del fratello.

Fu proprio in quel momento che il vecchio ci comparve davanti. Dico comparve perché, impegnato com’ero nei miei movimenti, non mi accorsi di lui se non quando ce l’ebbi di fronte.

“Andate su alla casa? Bene, bravi. Vi do una mano con le valigie.”

Io non sapevo cosa dire. Avrei preferito andarmene senza rispondere ma mia moglie, non comprendendo il mio sbigottimento, mi sibilò in un orecchio:

“Per una volta potresti accettare un aiuto senza stare tanto a pensarci su.”

Il vecchio aveva già una mano sulla valigia e avrebbe preso per mano anche mio figlio se non mi fossi messo in mezzo. Solo a quel punto mormorai:

“Grazie, grazie. Molto gentile.”

Non riuscii ad aggiungere altro mentre riprendevo a camminare a passo rapido, trascinandomi dietro i bambini, la moglie, e il vecchio che, di tutti, sembrava fosse quello che faceva meno fatica.

Mia moglie capì che c’era qualcosa che non andava. Forse pensava alle storie di contrabbandieri che le avevo raccontato ai tempi del nostro fidanzamento, tutte invariabilmente ambientate fra i boschi attorno alla casa. Ma erano storie che avevo sempre ripescato dalla memoria più per darmi un tono e suscitare il suo interesse, che perché ne sapessi davvero qualcosa. Erano solo favole con cui mi facevano addormentare, quando venivo dalla nonna, alla casa sul Lago.

Il temporale scoppiò violentissimo. Il vento piegava le cime degli alberi e ai lati del sentiero cominciò a scorrere un rivolo d’acqua scura che trascinava a valle le foglie, i rami, i formicai. Facevamo davvero fatica a capire dove mettere i piedi. Per fortuna il vecchio non aveva fatto una piega e aveva continuato ad accompagnarci, gentile e silenzioso, lungo la strada. Non so proprio come avremmo fatto, altrimenti.

Mia moglie non seppe trattenersi dal dire:

“Ci hai cacciato proprio in un bel casino. Non fosse per questo povero vecchio che ci dà una mano, non so come ce la saremmo cavata.”

Arrivati a casa le cose si aggiustarono. Contrariamente ai miei timori, la chiave girò nella toppa, la porta si aprì, la luce si accese. Sembrava che tutto finalmente dovesse andarci bene. Quando ci voltammo per ringraziarlo, e magari invitarlo ad entrare, il vecchio non c’era più. Se n’era andato senza salutare, lasciando la valigia nel mezzo del sentiero.

“Gli potevamo offrire qualcosa, disse mia moglie dispiaciuta di non averlo potuto ringraziare a dovere.”

“Mhmm. Meglio di no, dissi io.”

“Perché? Lo conoscevi?”

“Certo. Era mio zio.”

Per una volta mia moglie accettò il muto consiglio del mio sguardo spaurito e non replicò. E non disse, di fronte ai bambini che ascoltavano tutto, che lo zio era morto ormai da cinque anni.