Tre passi dentro l'infinito

Premessa

C'è un racconto di Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano, in cui l'Autore si dà a un'affermazione avventata. Del resto lui stesso, all'inizio della Biblioteca di Babele, parla del concetto che corrompe e altera tutti gli altri, cioè l'infinito. Nei tre articoli cui accenno nel titolo, mi propongo di stabilire quanto segue: che cosa afferma Borges, perché ciò che afferma non è corretto e dove invece l'infinito, apparentemente ridimensionato, torna invece ad erompere sulla scena, inarginabile.

Un'affermazione avventata

Borges immagina dapprima la scrittura di uno strano libro, un libro in cui, al capitolo iniziale, ne segua un secondo. Quindi un terzo, che altro non è se non una differente continuazione del capitolo iniziale. E poi un quarto, che riprende il secondo capitolo e lo prosegue; un quindi un quinto che contraddice al quarto, continuando in modo alternativo il secondo. E così via.

Il libro di cui parla Borges contiene, ad ogni passo, una biforcazione; e, di tutte queste ipotesi alternative, nessuna viene scartata. Se in un capitolo un personaggio muore, in uno successivo può invece essersi salvato dalla lunga e penosa malattia che prima l'aveva consumato. E trovare l'amore. E poi invece non averlo mai nemmeno conosciuto. Può essere pianto sul suo letto di morte. O disprezzato nel profondo. E tutte le ulteriori possibilità, convivendo, non amplificano la trama. La condensano, o meglio, la raggrumano in un tempo unico, infinitamente ramificato, dove tutto è presente e tutto è alternativo e parallelo.

Ma è proprio estendendo questo concetto, che Borges fa un'affermazione errata. Perché, invece di due prosecuzioni, ne comincia a supporre tre. E poi quattro, e così via, fino a sostenere che:

«un libro in cui, ad ogni capitolo seguono infinite continuazione è un libro che solo gli dei possono scrivere»

La matematica dell'ottocento ci ha dotato degli strumenti per confutare razionalmente questa affermazione.

Vediamo in che modo l'affermazione è banalmente errata; per vedere in che modo è errata matematicamente, rimando all'articolo seguente.

E' banale se si intende che per scrivere infiniti capitoli occorre una divinità, intendendo con questo termine l'artificio retorico che raddrizza i torti dati dalla differenza fra quanto vorremmo e quanto possiamo. Certo: il tempo dell'universo non basta per compiere nessuna azione "infinita"; ma, allo stesso modo, un libro in cui a ogni capitolo ne segua uno e uno soltanto, posto che abbia infiniti capitoli, non potrà mai essere scritto.

E allora che cosa differenzia nella nostra mente il sentimento di poter scrivere il libro con i capitoli in unica successione dal libro con i capitoli infinitamente ramificati? Possiamo esprimere questo concetto per approssimazioni successive.

Possiamo innanzitutto ritenere che un libro infinitamente semplice abbia meno capitoli di un libro infinitamente ramificato. E chiamare questa la nostra "ipotesi iniziale".

Oppure possiamo figurarci, con frase un poco da tossicodipendenti, che in un libro infinitamente semplice, "posso smettere quando voglio", cioè posso determinare quando raggiungerò qualsivoglia capitolo. Mentre potremmo, per contro, ritenere, che questo non sia possibile in un libro infinitamente ramificato.

In realtà le cose non stanno in questo modo. Un libro in cui ad ogni capitolo ne seguono infiniti ha esattamente lo stesso numero di capitoli di un libro in cui ad ogni capitolo ne segue uno e uno soltanto. La dimostrazione è lasciata all'articolo seguente. In questo mi basta porre le basi per permettere che la dimostrazione possa essere intesa come tale.

Di che cosa parliamo quando parliamo di infinito

Fino a prima che venisse introdotto, in modo matematicamente sostenibile, il concetto di infinito, valeva l'assunto che l'insieme sia maggiore di una sua parte strettamente contenuta. In ogni insieme finito di elementi, una parte di questi elementi che non comprenda tutti gli elementi dell'insieme veniva, in base all'esperienza, considerata inferiore all'insieme stesso. La cosa suona molta ragionevole. Ed è solo il concetto di infinito a rompere le uova nel paniere. Addirittura si potrebbe capovolgere il discorso affermando che un insieme infinito è tale se e solo se si può porre in relazione biunivoca, con una sua parte propriamente contenuta. Il che, a mio modo di vedere, è di non secondaria eleganza.

Ma torniamo un passo indietro, fino a ridefinire in modo più preciso un termine che diamo spesso per scontato ma che, fino a quando non ci si sia riflettuto adeguatamente, rischia di essere molto difficile riuscire a definire in modo soddisfacente. Che cosa significa "contare"? Contare significa (almeno per i matematici) mettere in corrispondenza biunivoca gli elementi dell'insieme "da contare" con una parte (propria o meno) dell'insieme dei numeri naturali.

In questo senso, l'operazione di contare 5 elementi consiste nel mettere il primo elemento in corrispondenza con 1, il secondo con 2 e così via fino al quinto e ultimo con il numero 5. Questo fatto che nessuno esegue in modo conscio ci dà una serie di vantaggi dei quali è probabile che si sottostimare l'importanza. Ne elenco alcuni:

  1. Se io ho 5 elementi e tu ne hai 4, so di avere più elementi di te. Questo fatto me lo dicono le proprietà dei numeri non quelle degli elementi. Se non contassi i miei elementi e tu non contassi i tuoi, avremo altri modi che non quelli numerici per sapere che io ne ho di più: ad esempio potremo allineare i nostri elementi e vedere la lista più lunga. In questo senso, togliendo di mezzo i numeri, occorre però tornare agli elementi concreti e non alla loro astrazione numerica.
  2. Se io ho 5 elementi e tu ne hai 4, io so che se te ne cedo uno, tu ne avrai più di me (cosa che, ad esempio, non sarebbe stata vera se io di elementi ne avessi avuti 5 e tu 2). E ancora una volta questo è immediatamente vero basandoci sui numeri e non sugli elementi concreti.
  3. ecc.

Ma qui viene la prima sorpresa. Se ci dovessimo chiedere sono più i numeri naturali (1, 2, 3 ecc.) oppure i numeri pari (2, 4, 6, ecc.), quale sarebbe la risposta giusta? Quando si tratta di insiemi finiti, la risposta sarebbe ovvia; nel caso di questi due insiemi a confronto (Naturali e Pari) la questione cambia. Io ora affermo che ci sono tanti numeri Pari quanti sono i Naturali (che sono Pari e Dispari insieme). Il problema, semmai, è: come faccio a dimostrare questa mia affermazione?

La risposta è: mettendo in corrispondenza biunivoca un insieme con l'altro, in modo che ad ogni elemento del primo corrisponda uno e un solo elemento del secondo. Se riesco a garantire questo, allora riesco a garantire che non si tratta di due insiemi diversi, ma di due insiemi con lo stesso numero di elementi (addirittura, ma non è il caso di insistere su questo concetto ora, si può dimostrare che si tratta proprio dello stesso insieme).

Mettere in relazione biunivoca numeri naturali e numeri pari è molto semplice: considero la relazione che da un numero n passa al suo doppio 2n. Questo è tutto quanto occorre. Per ogni intero n esiste uno e un solo elemento 2n a lui associato, appartenente all'insieme dei numeri pari (cioè proprio il doppio di n); e per ogni numero pari, viceversa, esiste uno e un solo numero intero (la sua metà) a lui associato.

Nonostante possa sembrare banale, questa breve dimostrazione indica che pari e interi sono due "facce diverse" dello stesso insieme. L'elemento essenziale e avere trovato il modo di porli in relazione biunivoca; questo basta a dimostrare matematicamente che i due insiemi hanno gli stessi elementi (o, meglio, sono in corrispondenza biunivoca).