Che cavolo di mattina

Sono in una stanza dall’aria familiare. Non ricordo bene che stanza sia. È un posto accogliente. Non da starci larghi. Ma è bello stare qui rintanati, come dentro una musica imparata a memoria.

A me questa stanza piace. Non me ne vorrei mai allontanare. Ho come la sensazione che, se dovessi aprire la porta, oltre non ci sarebbe nulla. Lo so: è una sciocchezza. Ma ne sono proprio convinto. Così come se dovessi aprire la finestra, fuori dalla quale non vedo che pochi rami di pioppo ondeggiare al vento, sono sicuro che non ci sarebbe nulla. Soltanto quelle fronde sospese nel vuoto.

È una sensazione strana. Forse ho lavorato troppo, in questo periodo. Sono stanco. Mi sento così stanco da non ricordare nemmeno quale sia il mio lavoro. Andiamo: che cosa faccio? Come campo?

Nella stanza c’è una ragazza. Né bella, né brutta. Non una di quelle per cui la gente si volta a guardare. E lei lo sa. Questa convinzione rende opaco il suo sorriso, più distante il suo sguardo. Le sue parole escono in lievissimo ritardo, come la seconda onda che raggiunge la riva. Come un’eco che, per quanto si affretti, sta soltanto imitando qualcuno già arrivato.

La ragazza mi trascura. A volte rivolge i suoi occhi sulla mia camicia. Sulle mie mani. Quasi mi stupisce che mi veda, visto che non si sofferma su di me. Ogni volta passa oltre. Sembra che la mia presenza non aggiunga e non tolga nulla ai suoi pensieri. Non sono la soluzione di nessuna delle sue domande.

Forse abbiamo litigato. Non capirei altrimenti la ragione di un tale trattamento. Come se fossi trasparente. Come se non offrissi all’aria alcuna resistenza.

Eppure la ragazza sembra serena. Di più: sembra soddisfatta. È seduta alla sua scrivania. Picchietta sul portatile e ogni tanto, per la concentrazione, la punta della sua lingua fa capolino fra i denti bianchi. Alza la mano a cercare la tazza in cui deve avere del tè, o una tisana. O chissà che cosa. Perché tanto non arriva davvero ad afferrarla. La mano resta a mezz’aria e viene presto richiamata a continuare una frase. A insistere su un pensiero non afferrato ancora pienamente.

A poco a poco la sua espressione cambia. Non è più soddisfatta come prima. Forse qualcosa, ora, la infastidisce.

Io faccio l’architetto, ecco cosa! Finalmente me ne sono ricordato. E, devo dire, ho una bellissima casa. Altro che questa. Mi spiace averlo detto, ma non avrei ragione di mentire. Tanto più che non provo particolare simpatia per la ragazza. Per il suo vedermi senza vedermi. Per il suo non rivolgermi mai la parola. Qualcosa ci deve essere stato fra di noi. Qualcosa di intimo e di finito male.

La ragazza si alza e va alla finestra. Guarda gli alberi che ha di fronte. Guarda lontano.

Quando torna a sedersi mi ricordo meglio di chi sono: sono un poliziotto. Perché prima avevo pensato di essere un architetto? Chissà… La stanchezza, a volte, gioca brutti scherzi. Forse sono semplicemente sotto copertura. Sono un poliziotto che, in questo preciso momento, finge di essere un architetto. Questo spiegherebbe ogni cosa, credo.

La ragazza è sempre più seccata. Va avanti e indietro fra le righe, come se cercasse di ritrovare il filo del discorso. L’idea che prima c’era e ora si è persa da qualche parte.

Mi incuriosisce. Cercando di non infastidirla, di non farmi nemmeno notare, mi sposto alle sue spalle. E sbircio lo schermo. Vedo molte righe fitte fitte. Ho una sensazione stranissima. Trovo la parola poliziotto. Più avanti la parola finestra. Ma tutto mi suona strano. Un po’ come quando si ha la febbre. Perché è come se ci fosse qualcosa di non detto, fra di noi. Qualcosa di importante.

Quando vedo che lei seleziona un intero paragrafo e, dopo un attimo di dubbio, schiaccia il tasto per cancellare, in quel momento capisco e mi viene da gridare. Vorrei gridarle di fermarsi. Ma non faccio in tempo.

E scompaio.


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